24 ore da pendolare

by Pendolando on July 9, 2009

Mi sveglio mezz’ora prima della sveglia, per non avere brutte sorprese.

E’ presto ma non ci casco, non posso commettere sbagli.

Investo il tempo guadagnato ad un sogno vago in cui mi alzavo tardi e perdevo il treno, riconsiderando l’appropriatezza del vestiario scelto la sera prima. I sandali si, ma con le calze, perché se il condizionatore si pianta su “siberia”, almeno salvo le estremità, la vita e l’onore, evitando di affrontare una congestione prima in treno, poi in metro e dopo ancora in ufficio (e ritorno). La maglietta sì, la maglia anche, sempre per le stesse ragioni.

Se invece il treno si arroventa come una piastra da gofri, i calzini li tolgo e la maglia pure. Ho preparato un doppiofondo inodore che nemmeno le “unità cinofile”…

Nello zaino tengo: un ombrello, un fazzoletto di stoffa, le salviette per bimbi rubate con favore delle tenebre dal fasciatoio di mio figlio, la maglia e dignitosi fazzolettini di carta, provvidenziali in caso di mancato rifornimento alla toeletta viaggiatori.

Nella zona “svago” del mio zaino, proprio sopra il doppio fondo in amianto e accanto al reparto vettovaglie, c’è il mio glorioso notebook, capace di traformarsi in cineforum, quando riesco a sedermi bene , nel vagone c’è relativa pace e il condizionatore pompa aria a temperature compatibili con la sopravvivenza dei mammiferi di medie dimensioni e a pelo rado.

Se invece la tramontana e il grecale soffiano all’unisono, mi raccolgo in posizione fetale, ringrazio gli anni giovanili dedicati allo yoga e al tai chi, e visualizzo il minestrone della sera. Deprimente ma funziona!

Quando mancano due fermate alla mia destinazione tolgo il bivacco e mi preparo allo scatto. Al fatale aprirsi delle porte devo essere ben posizionato per guadagnarmi il diritto alla metro dove una delle tante modelle che bazzicano in Via Washington non manca di notare i miei malconci ma gloriosi calzini di spugna. Sigh…

Linea verde prima, rossa poi, trecento metri di aria pura milanese e poi ufficio. Otto ore di sordo oblio di me stesso e un’ora di lotta per un posto a sedere alla “catacomba” (fresco bar-ristoro sotteraneo) o alla “bottega” (minuscolo localino a conduzione familiare, sovraffollato come una Kashba se solo arrrivi dopo le 13.02 minuti).

Al ritorno, se tutto va bene, hanno revocato lo sciopero della metropolitana, il treno ritarda solo 10 minuti, raggiungo a balzelloni il bus e finalmente, novello ulisse che compie il proprio epico periplo ogni maledetto giorno lavorativo, sono a casa.

Agognata e mai veramente gustata meta serale, sfuma tra i salti del bimbo e i piatti da lavare.
E cosa mi metto domani?

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